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Cannabis: la pianta della discordia da sempre vicina all’uomo

Oggigiorno parlare di cannabis non è più considerato un tabù, tuttavia mentre da un lato il termine canapa è ampiamente accettato e diffuso, dall’altro parlare di cannabis genera ancora disagio in molte persone.

Abbiamo già detto che non esiste differenza tra i due termini e che questa distinzione è semplicemente frutto di un concetto del tutto arbitrario in cui il termine canapa è associato all’uso industriale della pianta, mentre con cannabis ci si riferisce al suo uso ricreativo.

Esistono diverse varietà di cannabis?

Prima di fare un bel tuffo nel passato, facciamo un po’ di chiarezza su alcuni termini. Secondo la classificazione attualmente accettata, il genere comprende un’unica specie, la Cannabis sativa. In passato vennero identificate altre specie (indica e ruderalis), attualmente considerate tuttavia come mere varianti fenotipiche.

La cannabis venne classificata per la prima volta attorno al 1750, da Carlo Linneo. Egli credeva che il genere fosse monotipico (ovvero contenesse una sola specie) e lo nominò Cannabis sativa L. Linneo era un botanico svedese, e realizzò questa classificazione lavorando con esemplari di canapa, che in quell’epoca erano ampiamente coltivati in tutta Europa. Nel 1785, il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck pubblicò la descrizione di una nuova specie di cannabis, diversa da quella scoperta da Linneo. Lamarck battezzò questa pianta _Cannabis indica_ Lam., e notò che era povera di fibre, ma con notevoli effetti inebrianti. Tale descrizione si basava su esemplari che lo scienziato aveva raccolto in India. Nel 20° secolo, il botanico russo D.E. Janichevsky individuò una terza varietà di cannabis, originaria della Russia, che oggi conosciamo con il nome di Cannabis ruderalis.

La storia della cannabis

La pianta di canapa è un invito vivente alla resistenza. È un seme che spunta dalla terra puntando verso il cielo indicandoci che può esserci un futuro diverso da quello che conosciamo e fatto di un’economia sostenibile per l’uomo e per l’ambiente.

La storia della cannabis è in stretta relazione con quella dell’essere umano. Sin dall’antichità la cannabis è stata utilizzata e coltivata, tanto da diventare, per alcune popolazioni e culture, tratto distintivo, con riti e cerimonie. La cannabis è presente nel mondo da circa 15mila anni, ma da dove e come si sia diffusa crea dibattiti fra gli studiosi, propensi inizialmente a ritenere che il primo ceppo fosse originario dell’Asia centrale (una zona tra l’Himalaya e la Cina). Teoria oggi smentita a seguito di tracce presenti nel vecchio continente, tra cui nei pressi del lago di Abano – in provincia di Roma (11.500 a.C.).

La realtà è che la cannabis è presente da “sempre”, in Europa e nel Mediterraneo, così come in Asia.

Nel 2737 a.C. l’imperatore Shen Nung fu il primo ad includerne i benefici in un trattato di medicina. Gli Assiri la usavano contro depressione, artrite, calcoli renali, dolori mestruali e impotenza, mentre con il suo olio preparavano unguenti da spalmare su lividi e gonfiori. In India, agli usi già conosciuti, i medici ne aggiunsero di nuovi con fini analgesici, anticonvulsivi, antinfiammatori, antibiotici e contro bronchiti, asma e inappetenza.

Alcune fonti ne fanno risalire l’uso in Grecia già nell’800 a.C. Lo storico greco Erodoto nel V secolo a. C. racconta che presso gli Sciti, popolazione nomade indo-iraniana, quest’erba veniva spesso passata in giro e fumata nei banchetti e durante le cerimonie funebri, per mettere allegria. Nell’Europa centrale, ancor prima dell’espansione dell’Impero romano, la cannabis era già coltivata e usata nelle isole britanniche dalle tribù dei Celti e dei Pitti (III- IV sec a.C.). Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia menziona le proprietà terapeutiche dell’erba, e ulteriori riferimenti si possono trovare nell’Antica Juliana del medico Nerone Discoprite.

Certamente è un dato di fatto che sia diffusa da migliaia di anni in tutto il pianeta, adattandosi anche a quelle latitudini dove poche specie vegetali riescono a prosperare e, ovunque sia cresciuta, l’uomo ne ha compreso ben presto le infinite proprietà.

In periodo Tardoantico e Alto medievale perdurano gli utilizzi medicinali della cannabis. Troviamo riferimenti alla pianta in un compendio anonimo di fitoterapia del VI secolo (Erbario di Apuleio Platonico) e nelle opere Liber divinorum operum e Scivias, entrambe di Ildegarda (1098-1179), badessa del convento benedettino di Bingen. Questi testi descrivono – tra gli altri – gli utilizzi in campo medico per le ustioni da freddo e contro il mal di stomaco.

Ancora in periodo medievale è da sottolineare l’importanza delle fibre di canapa per le repubbliche marinare della penisola italiana. L’utilizzo dei derivati della pianta, essenziale per i trasporti marittimi sin dal periodo fenicio, è divenuto fondamentale per le navigazioni transoceaniche. In ambito navale, le fibre venivano utilizzate per produrre cordame e vele, nonché l’olio, utilizzato per l’illuminazione. Dall’epoca dei Fenici fino alla fine dell’Ottocento si calcola che il 90% delle vele fossero fabbricate in fibra di canapa; ciò ha reso la coltivazione della pianta la più diffusa dall’anno Mille.

A cavallo tra l’epoca medievale e moderna si riscontrano anche utilizzi di fibre di canapa al di là dell’industria navale. La Bibbia di Gutenberg del 1453 fu realizzata in carta di canapa, così come le bozze della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, e i primi esemplari di bandiera americana. Proprio per quanto riguarda il neonato stato nordamericano troviamo alcuni interventi e scritti di George Washington e Thomas Jefferson, inerenti alla coltivazione e produzione canapicola. Così scriveva Jefferson:

“Anche se la migliore canapa e il migliore tabacco crescono sullo stesso tipo di terreno, la prima è necessaria al commercio e alla navigazione, in altre parole al benessere e alla protezione del Paese, il secondo invece non è utile, anzi è addirittura dannoso […]. È vero che la canapa necessita di più lavoro rispetto al tabacco, ma essa offre materie prime per ogni tipo di industria e può costituire un valido sostentamento per un considerevole numero di persone”

Se il fusto della pianta è stato per millenni il principale materiale da costruzione, i fiori e l’olio erano ingredienti fondamentali della medicina.

A metà dell’800 la medicina occidentale scoprì la cannabis tanto che le aziende farmaceutiche misero a punto i primi medicinali tratti da essa. Le farmacopee europee utilizzavano la cannabis come trattamento anestetico e antinfiammatorio, contro le emorragie, infezioni ed altri disturbi. In Italia, alla fine dell’800, era del tutto normale acquistare in farmacia “l’estratto di canapa indiana” proveniente da Calcutta ed i “sigaretti di canapa indiana per curare l’asma”. I rimedi a base di cannabis venivano pubblicizzati su quotidiani e riviste. il 4 ottobre 1862 sul settimanale Vanity Fair comparve la pubblicità delle caramelle a base di Hashish, definite un “trattamento per il nervosismo e la malinconia e uno stimolante piacevole e innocuo”.

Dal 1.000 a.C. e fin dopo la rivoluzione industriale, la canapa ha rappresentato il più importante elemento per ogni industria in buona parte del mondo.

Con la rivoluzione industriale l’avvento della meccanizzazione agricola, dei concimi chimici e del cotone proveniente dalle colonie, la coltivazione della cannabis divenne meno conveniente.  In ambito medico, i medicinali sintetici, agevolati dagli sviluppi della chimica moderna si sostituirono efficacemente ai medicinali naturali.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, le macchine sgranatrici brevettate per i raccolti di cotone mal si adattavano alla resistenza delle fibre della pianta di canapa; e le nuove industrie della carta riuscivano a trarre maggior profitto dalla cellulosa degli alberi rispetto a quella di cannabis.

Le cose cambiarono nel 1917 con il brevetto del decorticatore di Schlichten. L’utilizzo di questa macchina consentì una ripresa della filiera dell’industria canapicola, tanto che il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti vide la possibilità di riportare “la canapa a essere la maggiore industria agricola nazionale”. La canapa si apprestava così a riprendersi il suo ruolo storico, quello di pianta fondamentale per l’umanità. Nel 1937 Henry Ford mise a punto un prototipo di auto costruita con fibre naturali di lino, canapa e paglia, alimentata con etanolo di canapa. Erano gli anni in cui le auto si avviavano a diventare un prodotto di massa richiedendo grandi quantità di metallo, plastiche e petrolio. Ford, però, era convinto che l’auto del futuro dovesse essere costruita ed alimentata con elementi biodegradabili.

La canapa avrebbe potuto offrirci un mondo migliore e senz’altro meno inquinato. Avrebbe potuto…

Nel tempo in cui l’umanità si trovava tra due terribili conflitti mondiali, una nuova guerra mai raccontata era già cominciata. E la canapa era nel mirino.

Il Novecento è considerato il Secolo proibizionista:

Tra il 1920 con il Volstead Act e il 1933, gli USA vissero un periodo nel quale gli alcolici furono messi fuori legge. Il proibizionismo, per l’alcool, fallì, ma senza impedire – pochi anni più tardi – di promuovere una seconda ondata proibizionista, questa volta nei confronti della canapa.

I due principali promotori furono William Randolph Hearst e Lammot Du Pont. Il primo era un magnate dell’editoria, possessore di riviste e giornali locali che in quegli anni tavano acquisendo notorietà e aumento di vendite grazie all’utilizzo della stampa scandalistica (yellow journalism). Il secondo, Du Pont, in quegli anni stava riconvertendo l’azienda familiare da fabbrica di esplosivi a impero della petrolchimica. A partire dagli anni Venti registrò brevetti di materiali derivati dal petrolio: Nylon, Naflon, Lycra e Teflon. Hearst e Du Pont erano accomunati dal fatto che i rispettivi campi d’investimento erano messi seriamente a rischio dai progressi dell’industria della canapa.

Ma non è tutto.

Andrew Mellon, uno dei principali banchieri dell’epoca, nonché finanziatore di Hearst e Du Pont, era anche proprietario della Gulf Oil, una delle famose “sette sorelle” del petrolio. Quest’ultimo vedeva una minaccia nella cannabis poiché, come dimostravano gli esperimenti di Ford, la pianta si proponeva come combustibile efficace, pulito ed economico. John Rockfeller, altro grande banchiere nonché proprietario della Standard Oil, era tra i principali finanziatori delle industrie farmaceutiche (le stesse che sarebbero diventate le big pharma).

Da qui nasce l’operazione principalmente giornalistica di cambiare il nome con cui riferirsi alla sostanza: da hemp (canapa) a marijuana (o marihuana), un termine dispregiativo ed identificabile con le etnie ispaniche e afroamericane.

Nel 1929, con la grande crisi economica, molti americani persero il lavoro ed i tanti messicani presenti sul territorio divennero un capro espiatorio su cui scagliarsi. Vennero accusati di rubare il lavoro agli americani, di offrire prestazioni sottocosto e di non essere capace di integrarsi. Molti lavoratori messicani la sera fumavano cannabis per rilassarsi, allo stesso modo in cui gli americani si bevevano un whisky.

Gli anni Trenta si rivelarono, così, particolarmente fecondi per le invettive contro il “pericolo marijuana“.

In realtà negli Stati Uniti di quei tempi nessuno sapeva cosa significasse la parola marijuana e quasi nessuno la cercava. Gli americani la chiamavano cannabis o hemp e conoscevano la pianta per i suoi usi industriali e medici, conservandone in casa estratti o sigarette già rollate come rimedio per stati di malessere.

La stampa scandalistica di Herst gettò le fondamenta per creare un mostro che di per se, tuttavia, non bastava a mettere al bando la coltivazione della pianta anche a causa degli studi che venivano fatti su chi assumeva cannabis.

Propaganda contro la Marijuana del 1935

Da una ricerca commissionata dall’esercito americano sugli effetti della cannabis tra i militari di servizio nel Canale di Panama:

“non vi è alcuna prova che il consumo di marijuana provochi dipendenza come l’alcol, l’oppio o la cocaina, né si può affermare che provochi effetti sensibilmente deleteri sulle persone che la usano”

Serviva una legge. Non riuscendo a farne passare una che bandisse la pianta (nella sua interezza) Harry Jacob Anslinger riuscì a far approvare una “imposta proibitiva”. La proposta, ribattezzata Marijuana Tax Act, prevedeva che tutti gli importatori, i fabbricanti, i venditori e i distributori di marijuana dovessero registrarsi in un albo del ministero del Tesoro, versare una tassa annua, nonché pagare un dollaro su ogni oncia di prodotto trasportato o venduto.

marijuana tax act
Marca da bollo da 1$ per la marihuana nel 1937

A nulla valse il Rapporto La Guardia del 1944, tra i primi studi sugli effetti del “fumo di marijuana”, che dimostrò l’inconsistenza delle posizioni di Anslinger e affermò – tra le altre cose – che “il consumo di marijuana non porta a dipendenza nel senso stretto medico”, slegando la sostanza dalle droghe cosiddette pesanti come morfina, cocaina ed eroina. Ma è nel 1961 – solo trent’anni dopo la nomina di Anslinger a capo dell’FBN – che il proibizionismo assunse una dimensione effettivamente globale con il Single Convention Drug Act emanato dall’ONU, il quale imponeva agli stati membri di eliminare completamente le piantagioni di cannabis entro il 1986.

Dopo secoli di sviluppo e progresso, la storia della canapa subì una radicale inversione di rotta. Iniziava l’era nefasta del proibizionismo. Un proibizionismo insensato che dagli USA si propagò in tutto il mondo.

La cannabis oggi

All’inizio del nuovo millennio, mentre l’Italia sprofonda ancora nella palude repressiva della legge Fini-Giovanardi, oltreoceano le cose iniziano a muoversi e a cambiare con le prime depenalizzazioni e legalizzazioni.

In Italia il 12 febbraio 2014 la legge Fini-Giovanardi viene dichiarata incostituzionale. inizia così a delinearsi uno scenario diverso. La strada è ancora in salita ma sicuramente una breccia nel muro del becero proibizionismo e dell’ignoranza è stata fatta.

Il 2 dicembre 2020, l’ONU ha parzialmente rivisto la classificazione della cannabis e della sua resina, rimuovendo la sostanza dalla tabella IV ossia dalle sostanze ritenute senza valore terapeutico, a seguito delle raccomandazioni dell’OMS del 2019.

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